Giunti a questo punto era prevista una revisione della normativa ed era attesa la presentazione di proposte di semplificazioni per PMI ed enti no profit. Per gli sviluppi attendiamo ma, in questa sede, vorremmo fare un breve bilancio.
Tra chiaro scuri, e con opportuni distinguo, il trend sembrerebbe positivo; da diversi sondaggi sembra si possano registrare significativi progressi delle aziende italiane in tema di adeguamento alla normativa. Tuttavia i distinguo a cui accennavo ed una analisi un po’ più approfondita ci restituiscono una fotografia della situazione un po’ diversa.
Per prima cosa si tenga conto delle significative differenze tra grandi aziende, piccole e medie imprese o micro imprese. Le ricerche si riferiscono, quasi esclusivamente a grandi imprese ma, per creare una cultura diffusa della protezione dei dati personali, non si può prescindere dalla piena consapevolezza di tutti i soggetti coinvolti.
In particolare le piccole realtà hanno dovuto affrontare sfide soprattutto sul fronte dell’accountability (o documentazione delle scelte) e della creazione di un sistema interno di compliance (gestione della conformità) al GDPR, con dei budget molto limitati o, addirittura, in assenza di budget.
Oltre a ciò si ravvisano difficoltà operative soprattutto relativamente alla creazione e manutenzione dei registri dei trattamenti, che se da una parte vede esonerate le organizzazioni con meno di 250 dipendenti, dall’altra però il Regolamento prevede che qualsiasi organizzazione, anche minuscola, con almeno un dipendente, che si trovi a trattare categorie particolari di dati (i dati “sensibili”), o dati personali relativi a condanne penali e a reati (i dati “giudiziari”), debba dotarsi di un registro dei trattamenti (art. 30.5 del GDPR), ed alla gestione delle violazioni dei dati personali, c.d. “Data Breach”, con la relativa notifica all’Autorità di controllo, ora obbligatoria entro 72 ore, modifica che rispetto al passato ha creato un notevole aggravio di lavoro sia per le organizzazioni che per le Autorità.
Gli ultimi dati che commentiamo ci restituiscono quindi un ritratto del nostro paese, a mio avviso, molto parziale e non sempre aderente alla situazione reale, e ad ogni buon conto, non così positivo come da alcune parti si è voluto segnalare.
Si aggiunga a tutto questo che i controlli, anche se da tempo partiti, non sono così numerosi da poter essere utilizzati dal punto di vista statistico.
Venendo ai numeri di cui siamo in possesso, sappiamo che poco più della metà delle grandi imprese dichiara di aver concluso il percorso di adeguamento, e, poco meno della metà dichiara di aver aumentato il budget a ciò dedicato.
Ma se andiamo ad analizzare nel dettaglio l’analisi scopriamo alcune cose interessanti che, a mio avviso, ci mostrano come la comprensione dello spirito della normativa non sia poi così vicino dall’essere stato compreso.
Per prima cosà direi che, ciò che non si è ancora compreso appieno è che il percorso di adeguamento non può mai considerarsi concluso.
Riguardo ai numeri, solo 8 aziende su dieci hanno creato un registro dei trattamenti e, nella stessa percentuale, hanno provveduto alla individuazione precisa di ruoli e responsabilità.
Circa 3/4 poi dichiara di aver modificato o aggiornato la modulistica come previsto dalla normativa e circa 2/3 hanno implementato procedure per la gestione delle violazioni. Ancora la metà (solamente) dichiara di aver adottato misure e procedure per garantire l’esercizio dei diritti agli interessati.
Ancora troppo poche quelle che hanno implementato procedure per la definizione di politiche di sicurezza e di valutazione dei rischi e l’adozione di misure per garantire la conformità dei trattamenti al Regolamento; per inciso e secondo chi scrive, l’unico approccio possibile per una corretta adozione di un sistema di gestione della privacy.
Bastano, in conclusione, questi dati per comprendere come siamo ancora abbastanza lontani dal creare una cultura della protezione dei dati personali e, di conseguenza, una cultura del rispetto delle persone.
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